Il magico potere di un "Come stai?"

È più facile lavorare se il tuo capo ti chiede come stai.
Riccarda Zezza ci spiega come sia possibile e perché in questo articolo de Il Sole 24 Ore.
Per quanto sia vitale per la specie umana condividere le proprie emozioni con altri, al punto che abbiamo neuroni dedicati proprio a questa funzione – i neuroni specchio, che riflettono le emozioni degli altri – ci siamo comunque educati al farlo il meno possibile sul lavoro. Un insieme di regole non dette fa sì che nel luogo e nel ruolo in cui passiamo la maggior parte del nostro tempo abbiamo instaurato un regime di relazioni fredde, o comunque contenute, limitate a emozioni “socialmente accettabili” nel contesto lavorativo. Ovvio che non ci riusciamo, non ci siamo mai riusciti. Siamo, come ha detto efficacemente la neuroscienziata Jill Bolte Taylor, “esseri senzienti che pensano”: i sentimenti ci raggiungono in modo più veloce dei pensieri e li condizionano. Sentiamo, insomma, prima di pensare.
Una recente ricerca della Harvard Business School dimostra che:
C’è un gap di aspettative tra manager e dipendenti. I manager considerano il dare un supporto emotivo come un gesto “gentile” che prescinde dal loro ruolo manageriale, i dipendenti invece lo considerano parte integrante del lavoro di un manager.
Alla comprensione e gestione delle emozioni è preposto un intero set di competenze, le cosiddette “competenze soft”, in particolare quelle dell’intelligenza emotiva. Senza esserci detti in modo ufficiale che le emozioni sono quindi consentite, se non benvenute, in orario d’ufficio, abbiamo però sdoganato l’idea che la capacità di gestirle sia un elemento di forza, soprattutto se si vogliono coordinare delle persone. Passando per le competenze si può quindi abbassare l’ansia che il cosiddetto “carico emotivo” che ogni persona porta con sé si riveli in realtà ingestibile, soprattutto in condizioni come quelle odierne. Ma la ricerca di Harvard fa un passo ulteriore nella direzione di un “Emotional Working” che apra realmente le porte a nuove abitudini, e lo fa rassicurando i manager che:
qualunque tipo di interessamento verso l’emozione che si intravede (neuroni specchio!) nel proprio collaboratore, soprattutto se si tratta di un’emozione spiacevole, ha l’effetto di produrre un aumento di fiducia;
questo è vero anche se e quando l’interessamento “fallisce”: se per esempio ad esso non segue l’attesa dose di attenzione o se dimostra di aver rilevato l’emozione sbagliata. Le persone preferiscono essere viste “male” al non essere viste affatto.
La fiducia nella relazione cresce perché, a prescindere dall’efficacia dell’intervento del manager, il collaboratore percepisce il costo che quel gesto ha per lui/lei e lo apprezza in quanto tale: il manager ha emesso insomma un Segnale Costoso (Costly Signaling) attraverso un’attività che non ha un beneficio immediato per lui, o che è addirittura “rischiosa”, come aprire conversazioni nuove con un collega apparentemente triste o affaticato.
Non solo perché le riunioni online mancano di tre quarti degli elementi che compongono la nostra capacità di comunicare e ci hanno tolto gli strati di improvvisazione che arricchivano le nostre relazioni, ma soprattutto perché mai come oggi è vitale che ci prendiamo cura gli uni degli altri, sempre e ovunque: potremmo aprirci alla possibilità che questo periodo di trasformazione del mondo del lavoro non riguardi solo l’organizzazione del tempo e degli strumenti, ma anche un’apertura radicale e coraggiosa verso relazioni che considerino il bisogno di essere visto interamente che ognuno di noi ha per poter “stare bene”.
Fonte: Il Sole 24 Ore